giovedì 21 aprile 2005

La situazione ICT italiana

Prendo direttamente dal sito di ComputerWorlditalia l'articolo riguardante il convegnoIdc di due giorni fa.
La situazione è piuttosto interessante.
Il principale problema del mercato IT italiano è che dal 2000 a questa parte il ritardo del nostro Paese nella produttività ha smesso di “fare da polmone differenziale di sottosviluppo che consentiva di ammortizzare i periodi di crisi”, come era avvenuto nei primi anni ’90 (vedi grafico). Da qui parte l’analisi di Roberto Masiero, presidente di IDC EMEA, per cercare di capire che cosa si può fare per invertire la tendenza negativa del mercato IT, che rimane stagnante quando in tutti gli altri Paesi europei mostra lievi segni di ripresa.
Dal 2004 non esiste più un'Europa unica dal punto di vista della produttività e della crescita del mercato IT, ma tre Europe diverse. C’è quella virtuosa formata dalla Gran Bretagna e dai Paesi nordici, cui si è ora aggiunta la Spagna, che cresce del 3% come PIL e del 4% e più come mercato IT. C’è l’emergente Europa centro-orientale, che vanta una crescita del 6% del PIL e di quasi il 17% del mercato IT. E poi c’è l’Europa stagnante della Germania, della Francia e dell’Italia, la cui economia cresce tra l’1,2% (il nostro Paese) e il 2,3%, e l’IT tra il 2% e il 3%.
Insomma “in Italia è finita l’era dei frutti bassi”: per crescere e prosperare l’industria IT italiana, che è essenzialmente un’industria di software e servizi, non ha altra scelta che organizzarsi e inventarsi qualche cosa che aiuti a sciogliere i cosiddetti nodi strutturali che impediscono lo sviluppo dell’innovazione e della produttività nel nostro Paese. Questi nodi, per IDC, sono quattro: gli investimenti in IT e la spesa in ricerca e sviluppo (al di sotto della media europea), il capitale umano (poco qualificato) e i processi delle aziende (arretrati). Sono questi nodi a determinare la situazione di crisi dell’industria IT, situazione aggravata dall’insufficiente rilevanza politica del settore: nonostante la quantità di associazioni di categoria, il loro peso sulle politiche di governo è pressoché nulla, ha osservato qualcuno.
E’ vero che per innescare un ‘cambiamento di stato’ occorre innanzitutto l’intervento del governo, della pubblica amministrazione locale, del sistema finanziario e delle università, ma anche le imprese italiane ICT possono fare qualcosa, suggerisce Masiero: innanzitutto comportandosi da 'buoni cittadini’, cercando una maggior collaborazione con le università, gli enti locali e tra loro stesse per creare tante Etna Valley ovvero trasformare in massa critica quelle esperienze e iniziative meritorie fino a oggi rimaste isolate e frammentate. E in definitiva per far sì che la ‘torta’ e le fette della spesa IT diventino più grandi per tutti. Per esempio, IDC è convinta che il Sud e altre regioni con un’elevata disponibilità di skill tecnici e un costo del lavoro contenuto possano costituire una valida alternativa all’offshoring dei servizi IT, tenuto conto dei costi nascosti di quest’ultimo.
In quest’ottica la stessa IDC si sta promuovendo come polo di aggregazione per creare un osservatorio che coinvolga le principali imprese di software e servizi italiane nella messa a punto di iniziative capaci di rilanciare uno sviluppo sostenibile del mercato dell’industria ICT.
Nel quadro poco felice del mercato IT italiano esiste però qualche cosa di cui rallegrarsi. Per esempio, nel 2004 le prime trenta società di software e servizi italiane, che rappresentano un terzo di tale mercato, hanno visto il loro fatturato aumentare del 2,4%, contro un calo di fatturato dell’1,4% dalle concorrenti internazionali, fa notare Ezio Viola, vice presidente di IDC per il Sud Europa. Tra esse spiccano Engineering, in crescita del 21%, Reply (+30%), Softpeople (+40%), TeamSystem (+25%) e Data Management (+23%). Merito nella maggior parte dei casi di modelli di business più flessibili, di strategie precise di posizionamento sul mercato, di un’organizzazione snella e di una struttura dei costi flessibile.

Ma siamo certi che si tratti solo di flessibilità? In IDC ne sono convinti. Io invece sono più propenso a pensare che si tratti di un modo diverso di approciare il mercato, molto più concentrato ai risultati per i clienti e quindi ai propri risultati. Si tratta di un'attenzione costante alle attese delle aziende e dei partner, alla costruzione di soluzioni che abbiano ritorni degli investimenti certi e significativi.
C'è bisogno che IDC si arroghi il diritto di creare un polo aggregativo nell'ICT? Forse sì, nel senso che se non lo fa nessun altro, o forse non è il caso, perché perderebbe quell'indipendenza che la contraddistingue. L'osservatorio imparziale va bene, il resto forse si addice maggiormente a società come Sirmi.
Il discorso Etna Valley è tutto da dimostrare. Mi spiego un pochino meglio sul tema. Io vivo a Milano. E' il centro dell'ICT più importante nella regione sud europea. Ci sono Università, ci sono aziende, ci sono distributori, ci sono var e via di seguito. Eppure non si è mai riusciti a fare sistema. Eppure le aziende, nel bene o nel male funzionano. I rapporti con le Università, soprattutto con i docenti, sono sporadici, perché se inviti un prof nell'80% dei casi ti accorgi che non capisce niente e che è lontano anni luce dai bisogni di queste aziende. E' un dato di fatto.
Ci sono altresì occasioni di incontri e convegni che mettono in circolo le idee. Questi, più o meno, funzionano. E fanno sistema. Sebbene improprio per parlarne in termini economici.
Quindi servono delle Etna Valley oppure dei sistemi di interconnessione di idee, favorite, ovviamente, da finanziamenti più o meno statali? Se vediamo emergere un modello che faccia collaborare industria, università e Pubblica amministrazione locale, con gli adeguati supporti finanziari e fiscali, allora sono d'accordo.
Ma è un ruolo che tocca solo alle amministrazioni e allo stato, o riguarda le banche e i sistemi di finanziamento privati? Di questi problemi non se ne parla mai, o meglio, se ne parla tra informatici.
Quindi serve a pochino.
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